I rendimenti statunitensi forzano il 3%
Pubblicato il 27.04.2018
Gli operatori finanziari stanno osservando con attenzione due importanti dati di mercato, improvvisamente ritenuti capaci di cambiare lo scenario dei prossimi mesi. Il primo riguarda il temuto livello di rendimento del 3% sul Treasury decennale statunitense, sopraggiunto nonostante i gestori obbligazionari si siano dimostrati per lungo tempo scettici su questa possibilità, obiettivo contemplato comunque in molte strategie per il prolungato atteggiamento restrittivo della FED. Più che di un vero cambiamento di scenario, il livello del 3%, rappresenta un motivo di preoccupazione psicologico degli investitori che vedono ormai concludersi un percorso di tassi di finanziamento molto vantaggiosi. Il secondo dato riguarda il ritorno di un trend di rafforzamento del dollaro. La combinazione sembra legata ai dati macroeconomici che negli Stati Uniti rimangono forti con attese di crescita del GDP in leggero aumento secondo il Fondo Monetario Internazionale. Non mancano ovviamente i punti di riflessione come ad esempio per i recenti dati sulle vendite di case a Marzo, in rialzo per il secondo mese consecutivo sopra i 5,6 milioni; gli esperti sottolineano che i prezzi delle case sono stati anche più alti, ma potrebbero rappresentare un ostacolo per i nuovi compratori in vista dell'aumento dei costi di finanziamento. Pur rimanendo lontanissimi dal rendimento del 5% segnato nel giugno del 2007, il 3% non veniva toccato da inizio 2014, un rialzo che pone in dubbio la performance sui portafogli di titoli governativi.
Dubbi su inflazione e politiche fiscali
Il ciclo economico statunitense sembra quello in fase più avanzata anche se il contesto non trova conferma nei prezzi al consumo, indicatore chiave che presuppone un surriscaldamento economico. Come sottolineato nella conferenza stampa della BCE, Mario Draghi vede la differenza di posizionamento dei tassi in relazione allo stato del ciclo economico, ancora arretrato della Zona Euro. A livello globale l'inflazione non ha ancora manifestato la aggressività tipica da ripresa della domanda e alla diminuzione costante del tasso di disoccupazione. Negli Stati Uniti in realtà la situazione potrebbe vedere un cambiamento sostanziale con la nuova politica fiscale introdotta dall'amministrazione Trump e dalle iniziative estere centrate su dazi e sanzioni commerciali. A dare forza alla tesi di un annuncio di maturazione del ciclo sarebbe invece un appiattimento della curva dei rendimenti governativi statunitensi con la forte ascesa del rendimento a 2 anni e di minore intensità per le scadenze più lunghe. La preoccupazione comunque di un aumento del deficit di bilancio causato dall'espansione fiscale di Trump, porterebbe acqua al mulino dei gestori che scommettono sull'aumento dei costi di finanziamento del debito sovrano Usa.
Un enorme debito globale
L'estensione di una politica monetaria globale molto espansiva ha avvantaggiato non solo gli investitori, ma ha posto le basi per iniziative di rifinanziamento societario a tassi molto bassi e all'ingresso di nuove emissioni. Il debito globale tra pubblico e privato, secondo l'Institute of International Finance, ha ormai raggiunto 233.000 miliardi di dollari rappresentando il 325% del GDP mondiale. La suddivisione vede le imprese a 68.000 miliardi di Dollari, seguite dai governi a 58.000 miliardi, dalle istituzioni finanziarie 53.000 miliardi e dalle famiglie con 44.000 miliardi. Sono state inoltre adottate strategie di allungamento delle durate con il vantaggio di una maggiore stabilità dei costi da interesse. In questi ultimi anni la diversa politica monetaria delle banche centrali ha creato un divario sempre più ampio tra i principali titoli sovrani. Zona Euro e Giappone rimangono ancorati a tassi zero e negativi proseguendo gli acquisti con il Quantitative Easing, al contrario la FED negli Stati Uniti continua la fase di normalizzazione con il rialzo dei Fed Funds e la diminuzione dei titoli in portafoglio.
Portafogli finanziari
Gli investitori si chiedono quanto il ‘salto' sopra il 3% dell'UST decennale possa disturbare il mercato azionario e come inciderà sulle performance dei portafogli? In primo luogo il segnale che il restringimento monetario è già in corso lo si vede nell'aumento della volatilità soprattutto per le asset class "growth". I gestori attivi non si sono fatti sorprendere dall'evento 3% sul Treasury UST 10y, anche se sono in molti a ritenere che lo scenario per l'obbligazionario stia diventando ancora più complicato. I portafogli obbligazionari passivi indicizzati ai benchmark non possono che sopportare la volatilità e le perdite in conto capitale. I portafogli obbligazionari attivi e flessibili hanno retto bene al contraccolpo e tendono ad essere meno volatili. Per quanto riguarda i portafogli azionari la situazione sembra meno preoccupante; i dati sulla profittabilità stanno risultando migliori delle attese per la maggior parte delle società quotate, anche se la competizione prospettica tra dividendi e rendimenti dei governativi comincia a chiedere una maggiore attenzione.
27 aprile 2018
Corrado Caironi - Investment Strategist di R&CAIl valore dell'investimento o il rendimento possono variare al rialzo o al ribasso; un investimento è soggetto al rischio di perdita. I rendimenti passati non sono indicativi di quelli futuri.